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e nel pensier mi fingo

Aggiornamento: 17 feb 2023

il piacere è una funzione derivata del dolore“ (Schopenhauer)

Giacomo Leopardi è nato nel 1798, ha vissuto 39 anni. Ieri sono stato presso la Moby Dick biblioteca, un hub culturale in Via Edgardo Ferrati 3, a Roma, per sentire la recitazione di alcuni passi dello Zibaldone e di alcune, delle più celebri e non,  poesie; lette dai bravissimi Emilio Fabio Torsello e Mara Sabia; l’evento “io nel pensier mi fingo” è stato organizzato dalla associazione culturale La Setta dei Poeti estinti.


Una vita difficile quella di Leopardi, vissuta e tormentata dall’interno, dal natio borgo selvaggio, intra una gente zotica da cui è riuscito a scappare, né a Roma né a Milano né infine a Napoli, dove è morto, è riuscito a trovare quello che cercava, tanto da porsi al cospetto della morte, che insieme all’amore, sono le uniche cose per le quali vale vivere, e scrivere al padre I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.

Leopardi era una di quelle anime centenarie nella saggezza e nel sorriso, ma in un corpo, che proprio a cagione lo ha costretto, di un saltimbanco, imprevedibile, assente e suscettibile, tanta l’emotività.


Uno scrivere esistenziale, partorito nelle viscere del sapere, del volere e della delusione del non riuscire. Quest’anima pesante e sepolta nei libri, gli unici che gli parlavano insegnandogli, rassicurandolo e non ferendolo nel vigilante intimo, desiderava liberarsi, fingersi nell’aria leggera delle nuvole, dell’infinito, identificarsi con i moti della luna che sola e pensante tace sulle vicende degli uomini, o nella Natura tutta, che osserva senza giudicare, spietata e dolce come la vita.





Leopardi interrogava gli astri e le stelle, sul perché quelle differenze tra gli uomini, quella vita di tante disgrazie che siamo qui a sopportare verso una meta per tutti eguale, che compito aveva l’Uomo e quale il suo, così differente; tanto che non avrebbe potuto pasciere tranquillo come le pecore senza affanno né noia, e poi ancora lo avvremmo potuto scorgere immedesimarsi negli occhi dei pastori, che all’ombra di un albero cercavano nel loro primitivo sentire, il più alto e autentico, come quello degli adolescenti, i quali Leopardi indica come gli unici filosofi, risposte: che più scavava e più trovava essenziali, impietose ma le uniche possibili.


Gli occhi inutilmente cercarono tranquillità, ristoro, compensazione e ad un certo punto – in questo suo vagabondare, di una compostezza ieratica, nell’analizzare ogni suo movimento e dolore interno, descriverlo per esorcizzarlo e chiederne riscontro all’universo – si è allontanato dalla sua vita personale, troppo misera e meschina, astraendola nel suo capolavoro della Ginestra, dove vi ha compreso un’umanità si fragile e superba, che tanto era nulla in confronto all’infinità del cosmo, ma che proprio per questo suo destino, frugale e difficile, avrebbe trovato la sopravvivenza e un minimo di quiete, solo nel mutuo aiuto e nella condivisione dell’umana sorte, lasciando da parte quell’atteggiamento oscurantista della falsa speranza della religione e del progresso tecnico, percorrendo solamente la strada della ragione.


La Setta dei poeti estinti ha dato poi il prossimo appuntamento per il 13 gennaio, ore 19, con la lettura di Alda Merini, presso lo “Spazio Veneziano” in Via Reno 18.



Pier Paolo Piscopo

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