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Immagine del redattorePier Paolo Piscopo

Il ventre delle banlieues nelle parole di Pier Paolo Piscopo


La recensione di Ettore Bucci su TuttoMondo qui trovate il link e di seguito la recensione del libro:


«Jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien. Mais l’important n’est pas la chute, c’est l’atterrissage» (La Haine). Il celebre film del 1995, che Mathieu Kassovitz sceglie di ambientare nel dipartimento di Yvelines, ad una ventina di kilometri da Parigi, è forse un cliché per qualsiasi discussione relativa al ruolo delle banlieues, ma riassume estremamente bene, con la frase di Hubert, il senso di straniamento e distanza che è uno dei tratti essenziali del saggio di Pier Paolo Piscopo. L’autore del saggio, pubblicato da Il Formichiere nel corso di quest’anno – Banlieue. Tra emarginazione e integrazione per una nuova identità – si sofferma sul contesto francese per assumere una chiave di lettura transnazionale per il ruolo delle generazioni di migranti che abitano le molteplici periferie europee. È un viaggio che poggia sulla vita dell’autore, su letture accurate che spaziano dalla sociologia alla storia dell’economia francese, ben dosate ed inserite con attenzione in una pubblicazione divulgativa. A metà strada tra un’inchiesta giornalistica ed un saggio d’histoire du temps présent, il testo considera gli agglomerati posti a cintura di Parigi come luoghi di soggettivazione antropologica, in particolare, per generazioni escluse in modo diverso dallo spazio pubblico. Piscopo raggruppa con intelligenza le forme dell’esclusione, le ragioni insite alla storia urbana e politica, le parole degli esclusi e degli escludenti. Oltre ad una bella bibliografia individuata alla conclusione del libro, l’autore indica come proprie fonti interviste a cittadini ed amministratori da lui realizzate, articoli di Libération e Le Figaro – tendenze politico-culturali opposte, ndr – realizzati sul tema tra 2004 e 2016.


I flussi migratori che generano la cintura periferica parigina sono posti nel cuore delle vicende storiche di Francia, quindi in stretta connessione con il colonialismo e la globalizzazione dei flussi umani verso la Métropole. L’assenza di un disegno urbano coerente che prefiguri un riconoscimento reciproco degli stili di vita, a detta di Piscopo, è la ragione alla base di un assetto urbanistico gentrificato e censitario. Cuore di tale lettura è la chiave offerta dallo storico del medioevo Jacques Le Goff in relazione all’esclusione delle minoranze, causa dei conflitti nel corso della civilizzazione dell’Occidente. Ban-lieu è pertanto il luogo del bando, della mancata integrazione, sia simbolica che materiale, nello spazio comune della civiltà urbana.


I luoghi presi in considerazione, ossia i principali nuclei urbani dei dipartimenti 93 (Seine St. Denis) e 94 (Val de Marne), circondano la capitale da nord a est e da est a sud. In particolare l’area oggi occupata dal comune di Montreuil è individuata come uno degli spazi che, dalla fine del Seicento, vede insediamenti di lavoratori, in ragione dei costi più bassi dei lotti di terreno. Le bidonvilles operaie sono proprio in quello spazio, nel corso dell’Ottocento, e condividono, oltre a deprecabili condizioni igienico-sanitarie, il senso di distanza ed esclusione dalla Città delle Luci.


La storia della composizione sociale di tali rioni è una vicenda di sedimentazioni successive di ondate migratorie i cui componenti s’incontrano senza miscelarsi, con la sola distinzione di una comune sub-cultura della classe operaia che ha il proprio apice nel corso dei Trente Glorieuses, i trent’anni di sviluppo socio-economico europeo dovuti alla ricostruzione post-bellica. Possiamo affermare che l’identità di tali quartieri sia l’identità operaia, di certo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino alle crisi petrolifere degli anni Settanta.


Tale sviluppo coincide, sul piano urbanistico, con una sempre più forte continuità con Parigi nell’ambito della pétite Couronne. Sul piano economico, resta particolarmente forte il ruolo dello Stato nella pianificazione della produzione, anche se l’emergenza abitativa è costante. I flussi migratori si amplificano in virtù dei ricongiungimenti familiari e la politica degli HLM – abitazioni a costo moderato, per i meno abbienti – crea sempre più un immaginario di tali periferie: luoghi in cui si vive in grands ensembles, alti palazzi densamente popolati.


Le crisi petrolifere segnano una trasformazione della classe operaia – si veda, a tal proposito, la bella produzione storiografica di Xavier Vigna – nel segno dell’avvento della società post-industriale. La dinamica dei consumi di massa entra a pieno regime anche nelle classi operaie, distinguendo i bianchi dai “nuovi arrivati”, mentre la specializzazione della produzione rompe i luoghi e le relazioni di solidarietà. È da qui che prende spunto l’autore per individuare, a buona ragione, il momento iniziale della rabbia verso un consumo che occidentalizza senza emancipare.


«L’avvento di una classe operaia senza radici, che accetta qualsiasi condizione, senza nessun tipo di tradizione sindacale, non qualificata, specializzata o scolarizzata occupa all’improvviso il posto che fino a quel momento era stato della società operaia bianca francese, dove l’equilibrio sociale fra il quartiere e la fabbrica era retto dal tempo scandito dagli orari di lavoro. (..) La cultura della prossimità, come quella operaia, è rotta dalla disoccupazione, dal cambiamento d’impiego (dalla società industriale si passa a quella post-industriale dei servizi), dal cambiamento di immigrazione, da temporanea diviene sedentaria, da polacca, italiana, spagnola cattolica e bianca, diviene subsahariana-araba musulmana, nera». (p. 27)


Quale mondo è prefigurato dalla trasformazione graduale di tali rapporti sociali, proprio in uno dei Paesi in cui più forte, sia sul piano simbolico che del conflitto materiale, è il ruolo del momento ’68 e delle lotte sociali? Piscopo usa come riferimento uno dei cardini della sociologia mondiale, quell’Alain Touraine autore de L’evoluzione del lavoro operaio alla Renault: «È l’avvento di una società non più verticale ma orizzontale, dove l’importante è sapere se si è al centro o alla periferia del mondo».


È a partire dalla riorganizzazione economica post-industriale che il processo di graduale distinzione di tali quartieri-ghetto ed aree non abitate da migranti si amplifica. Si rileva l’assenza di reti solidali informali, se non nei residui dell’associazionismo operaio o della presenza cattolica – si veda in particolare la presenza di reti giovanili ed operaie, ndr. È un tessuto comunitario che si scioglie: all’imborghesimento graduale delle famiglie di ex operai, alla terziarizzazione dei loro figli, alla scolarizzazione, si accompagna la distinzione dai “nuovi arrivati”. Dato che non tutte le famiglie operaie francesi riescono o intendono accettare il processo di trasformazione in classe media, emerge un senso di competizione con le famiglie immigrate. Concorrenza (al ribasso) in condizioni di vita e costo del lavoro, che diventa rancore sociale ed opposizione sempre più di sapore neo-nazionale ai processi di globalizzazione. Non è un caso che proprio da questo processo emerga l’elettorato di Jean-Marie Le Pen.



Prosegue, intanto, l’aumento dei volumi edificati nelle periferie, senza una politica globale di inserimento sociale e miglioramento delle condizioni di vita. Piscopo assegna tuttavia un ruolo concreto e fattivo alla réhabilitation delle periferie che è al cuore della proposta politica di François Mitterrand, presidente socialista della Repubblica dal 1981 al 1995. Incentivi ai trasporti, alla definizione di priorità pianificate nell’urbanizzazione, aumento del personale pubblico dedito alla solidarietà sociale, corposi fondi attivati per l’inclusione, opzione urbanistica per un social housing affiancato alla creazione di aree verdi: la cifra di un politica differente rispetto al gollismo e al settennato di Valery Giscard d’Estaing esiste.


Piscopo individua un elemento di corretta critica, ossia il fatto che la gauche socialista non contesti il processo di terziarizzazione e d’imborghesimento – e quindi non possa risolvere del tutto le sue contraddizioni – salvo, in ogni caso, costruire un consenso sociale ampio verso un corpus considerevole di politiche sociali. Un consenso che dura, con alterne vicende, dalla prima vittoria elettorale di Mitterrand (1981) al governo di Lionel Jospin (1997-2002) ed è ancorato a corposi investimenti pubblici e all’intervento forte dello Stato. Non è un caso che la stessa vittoria elettorale del gollista Jacques Chirac (1995) avvenga nel segno della lotta alla fracture sociale nel Paese, più che all’impostazione liberista che lui stesso aveva espresso da Primo Ministro (1986-1988). Ultimo prodotto di tale percorso è la Legge 1208 del dicembre 2000 relativa alla “riqualificazione urbana”: il tentativo è la ricostruzione di quella mixité culturale, sociale e linguistica che era alla base della solidarietà di quartiere.


Tali tentativi sono non di rado combattuti non solo dalla destra gollista, ma anche da associazioni e comitati civici, disinteressati a tali forme d’incontro con gli altri. Il senso dispregiativo verso i “luoghi del bando” aumenta e, complice il graduale senso di delegittimazione verso la politica e lo Stato in atto dalla fine dei Trente Glorieuses, «lo Stato non è più uguale ovunque. Il paradosso della Politique, settorializzando e delocalizzando, quindi sta nel dover rispondere non a un problema localizzato, definito, bensì al problema principale della società: la stigmatizzazione di una sua consistente minoranza, che giudicata negativamente, viene a sentirsi “caso” essa stessa. Il fatto che la maggior parte delle persone con difficoltà sia etnicamente diversa crea un sentimento di auto-esclusione e, dagli interessati il problema inizia a essere percepito come conseguenza del loro background etnico-culturale e non come dovuto alla propria condizione economico-sociale» (p. 45). Il declino della solidarietà operaia nelle banlieue vede, altresì, la sostituzione della presenza elettorale e politica dei comunisti con il ruolo sempre più forte del Front National lepenista. Mentre infatti i socialisti attraggono una classe media della quale anche famiglie operaie intendono far parte, al FN spetta sempre più un ruolo di rappresentanza degli “esclusi” da tali processi. Il resto è vicenda del nostro tempo: il processo di dédiabolisation del FN portato avanti dal 2011 da Marine Le Pen ha sempre maggior successo e, anzi, inizia anche ad attrarre le prime generazioni di famiglie migranti, in una potenziale e dura conflittualità latente con figli e nipoti.





Non va tuttavia dimenticato come l’elettorato lepenista sia soprattutto la France profonde: famiglie rurali, piccoli imprenditori schiacciati dalla nuova crisi economica, ceti medi impoveriti. La sfida alle nuove migrazioni, la logica del rigetto del diverso, proprio nelle banlieues, attrae consistente elettorato, complice la politica di dura repressione di cui è protagonista il governo della destra gollista a partire dall’insediamento di Nicolas Sarkozy al ministero dell’Interno (2002).


Per offrire uno spaccato di attualità, bisogna tuttavia rimarcare come le presidenziali del 2017 abbiano offerto un cambio netto di rotta, almeno dal punto di vista dell’insediamento elettorale. L’offerta politica di Jean-Luc Mélenchon è un’operazione di successo, che proprio in tali quartieri sottrae terreno al lepenismo ed offre un’alternativa radicata, da un lato, nella continuità simbolica del giacobinismo repubblicano e, dall’altro, nella lotta del “basso contro alto” e nella retorica del peuple cui è sottratto il diritto democratico alla sovranità e alla solidarietà. Anche in contrasto potenziale con l’unità politica europea, come sottolinea l’autore – forse un doveroso prezzo da pagare, per sottrarre consenso ed egemonia al lepenismo…: «Le Pen e Mélenchon ottengono i migliori successi nei Dipartimenti con maggiore disoccupazione, tasso di povertà più elevato e più alta percentuale di popolazione senza diploma. Il voto così di quei francesi figli dell’immigrazione, per la maggior parte, si è portati a credere, rispecchi il trend mondiale che sta premiando il ritorno nazionalista, un aggiornato socialismo economico e in Europa uno spiccato antieuropeismo» (p.57).


Come si pongono le generazioni figlie delle prime migrazioni, dei primi ricongiungimenti familiari? L’autore vi dedica un capitolo interessante, che ben si connette con la disamina circa il ruolo della scuola, che da vettore della religione civile della République diviene, per questi giovani, primo luogo in cui sperimentare il fallimento formativo, la marginalizzazione individuale.


Parliamo di giovani pienamente interni ai processi di globalizzazione delle dinamiche di consumo, avvezzi all’uso dei social media e di internet, perennemente alla ricerca di un’identità poiché esclusi dai luoghi formalizzati di gestazione di un’identità. Le reti sociali transnazionali consentono, tuttavia, l’inserimento di tali ragazzi in un lessico e in paradigmi culturali comuni ai propri coetanei, quale che sia la differenza d’origine etnica. Il paradosso, pertanto, è quella di un’identità omologata ed omologante, straniante rispetto alla propria stessa famiglia o allo Stato, ma che struttura il desiderio di alcuni tra tali giovani di ricercare un senso della vita ancora più radicale, intransigente: le forme della radicalizzazione religiosa nascono da qui. Nella condivisibile riflessione dell’autore, di certo non aiuta la visione assimilazionalista repubblicana, di matrice essenzialmente giacobina, alternativa rispetto al modello multiculturale offerto nel mondo anglosassone. Piscopo è ben consapevole che esistono pregi e difetti in entrambi i modelli, oltre ad una infinità di sfumature intermedie: quello multiculturale consente di strutturare un ethic business, ma rischia una compartimentazione ghettizzante delle persone; quello assimilazionista ha vocazione universalista, ma rischia d’essere estremamente astratto. In particolare, poi, «l’assimilazione ereditata dal sistema dei Lumi è fondata su concezioni di Stato, identità, sangue e territorio e sulla triade (fraternità, libertà e uguaglianza) di cui per anni la Francia è stata il modello per i diritti umani di tutte le democrazie: ma proprio nel colonialismo ha trovato la sua contraddizione e oggi nel grido inascoltato di alcuni suoi figli, trova la conferma» (p. 68).


La consapevolezza, specie nelle nuove generazioni, del discutibile passato coloniale francese – di cui ultimi prodotti nel secondo Novecento sono la Guerra d’Algeria e la politica egemonica detta françafrique – le rende più disponibili ad una critica strutturale della République e delle sue contraddizioni. Critica che si poggia sulla legittimazione identitaria di una “certa idea” di fede musulmana, per alcuni, e per molti in una spirale di atti violenti che ha luogo nelle banlieue almeno dagli anni Ottanta. Gli scontri del 2005, che portarono alla proclamazione dell’état d’urgence – basti pensare che tale stato di emergenza è stato proclamato solo durante la guerra d’Algeria e la recente emergenza terrorismo – sono descritti con accuratezza nel capitolo 9, dove l’autore specifica saggiamente che si tratta “solo” dell’episodio maggiormente mediatizzato (anche con esagerata enfasi sensazionalista) e del complesso di eventi che mise Sarkozy sulla cresta dell’onda come ministro dell’Interno capace di reprimere la guerriglia urbana, anche tramite discutibili episodi di violenza delle forze dell’ordine. Chi componeva questa racaille? Giovani, laureati o disoccupati, uniti da un sentimento d’ingiustizia e dalla sensazione che gli stessi luoghi fisici che abitavano non gli appartenevano: diventare casseur aveva il senso di spezzare catene, appartenenze negate.


Come si giunge all’estremismo islamista? «Quando al malessere si fornisce una spiegazione, quando le motivazioni vengono addossate a un altro, la percezione di sé andrà cambiando, il ragazzo si sentirà invaso dalla parusia del Messia, di essere investito di un compito messianico, di un destino storico che riscatterà il suo e quello dei suoi avi e di tutti i fratelli, come lui sfruttati dagli infedeli. Scoprirà che non solo lui soffre, è l’intera umma di iracheni, palestinesi, ceceni, siriani a subire torti. I figli riscattano i padri e nel percorso jihadista la legge più giusta è quella di Dio. Flessibile e gestibile, l’universo del web rende la comunità virtuale senza strutture gerarchiche, facile, ciascun membro è autonomo e protagonista della sua personale tanatopolitica. Dove ognuno può condurre la sua guerra in completa indipendenza e con i mezzi che meglio ritiene opportuni» (p.103). È chiaro che non c’è un legame automatico e generalizzato di causa ed effetto tra i moti del 2005 e l’estremismo di una parte di queste generazioni, ma si tratta di catalizzatori di rabbia effettivamente messi a disposizione di giovani che subiscono malcontento e senso di straniamento.


Un potente armamentario ideologico che solo le grandi religioni monoteiste possono strutturare, ricostruendo legami e comunità laddove salta la solidarietà di classe o l’associazionismo di quartiere o ancora la legittimazione delle organizzazioni politiche. Le religioni monoteiste, Cristianesimo ed Islam in particolare, hanno consentito nel corso del Novecento e consentono nel nostro tempo un vero inserimento di cittadine e cittadini esclusi nel corpo dello Stato-nazione. Attraverso dinamiche di mutualismo, circuiti informali, sedi formali e grammatica spirituale comune, le religioni tornano, nel cuore dell’Occidente europeo secolarizzato e materialista. Legare insieme le persone per tenerle distinte dallo Stato assimiliazionista o per inserirle, con una propria specificità riconosciuta? È un bivio che ogni comunità affronta in modo diverso. Di certo, la globalizzazione laica in Francia ha colpito più il Cristianesimo dell’Islam, dove la partecipazione alle liturgie comuni e alla pratica spirituale è nettamente più alta su un corpo numericamente molto ridotto (l’8% dei francesi).


Questo perché, come precisato giustamente dall’autore, la fede musulmana può sminare la Legge del 1905 sulla laicità della République: l’Islam può rivestire in modo totalizzante la vita privata di un individuo, ma un’identità religiosa completamente riversata nello spazio privato – che è il nucleo centrale della Legge del 1905 – non può offrire dinamiche di coinvolgimento e rappresentanza istituzionale, necessaria per uno Stato che intende sostenere i tratti dei monoteismi che rigettano l’estremismo e la violenza. «La laicité, per i musulmani, quindi, non permetterebbe lo svilupparsi della propria identità in quanto avvantaggerebbe chi è ateo o ha una religione discreta come quella cristiana; la laicità allora presenterebbe la virtù di cittadinanza per alcuni cittadini privilegiati, quasi a condannare come retrogrado, o comunque diverso, chi segue un qualsiasi altro culto religioso» (p. 112). Tale questione è intrinseca alla fede musulmana, come del resto all’ebraismo: non si tratta di mere religioni, ma di integrali stili di vita in cui la separazione tra teologia e politica non è possibile. L’esclusione del divino e del sacro dallo spazio pubblico, peraltro una delle conquiste dell’Europa contemporanea, va dunque seriamente messa a critica rispetto al rinnovato ruolo di tutte le religioni nella società.


Una messa a critica che saggiamente Piscopo affianca alla necessità che anche la fede musulmana esprima un passaggio ulteriore, per il quale, tuttavia, non potranno che servire anni di conoscenza reciproca e passi misurati. In tal senso, i Cattolici francesi e la stessa Chiesa, memori dei dolorosi ma importanti passaggi storici compresi tra l’Illuminismo e la Legge di separazione del 1905, possono offrire un percorso di relazione e dialogo che abbraccia i migranti, i sans papiers, le famiglie riunite, le giovani generazioni che esprimono distacco e assenza d’identità. Malgrado il peso di consistenti aree conservatrici ed integraliste del cattolicesimo francese, a partire dagli anni Settanta si struttura il dialogo inter-religioso, associato all’implementazione delle già presenti forme attive di carità. Una relazione molto consapevole di uno sviluppo materialista e secolarizzato della società, delle dinamiche post-industriali come del consumismo mediatizzato.


Il complesso di tali processi è messo a confronto, nell’ultimo capitolo e nelle conclusioni, con sintesi relative ai contesti tedesco, italiano, britannico. In particolare, il nostro Paese si distingue per un’assenza di conflitti così palesi come quelli violenti delle banlieue, assenza di ghettizzazioni, peso molto più ampio di migranti (in gran parte cristiani) dell’Europa orientale e balcanica, minor presenza di seconde generazioni. Un contesto destinato a trasformarsi non lentamente, tuttavia, se i processi politico-culturali spingeranno la società e le principali organizzazioni sulla rotta di un protezionismo neo-nazionalista, poiché andrà definito chi sta “fuori” e chi sta “dentro”. Il nostro tessuto urbano non esprime “luoghi del bando” come gli esempi proposti da Piscopo, anche se la marginalizzazione delle periferie è un elemento implementato dalla crisi economica e su cui andrà pesato il ruolo delle nuove migrazioni.


Come visto nel caso francese, è la rottura delle reti di solidarietà e la fine della mixité dei quartieri i momenti in cui, in particolare con la fine dei Trente Glorieuses, si amplificano le ghettizzazioni. Ancora: gli strumenti di espressione del malessere, per il futuro, possono essere ancora le religioni. Sedimentazione ultima di identità per chi esiste ma è allontanato dagli spazi formali della civiltà urbana, momenti di ritrovo nella fine dei corpi intermedi, spazi di liberazione emotiva senza emancipazione materiale: forse la Francia offre più spunti per il futuro di quanto si possa superficialmente credere. In questo senso, il bel saggio di Pier Paolo Piscopo può essere inteso come una rassegna molto valida e ben curata di appunti di viaggio nelle periferie di ieri ed oggi, oltre che come inchiesta ricca di spunti per amministratori ed animatori sociali.


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