Il 23 maggio alle ore 18:00 la Galleria del Laocoonte ha inaugurato, nella sua sede in Via Monterone 13, la mostra Marisa Mori - 1900/1985 - Disegni e Dipinti, a cura di Monica Cardarelli. Sarà possibile visitarla fino al 25 giugno 2018, da Mercoledì a Venerdì dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00.
Grazie all'intenso lavoro di studio, tramite interviste agli eredi e un copioso lavoro di archiviazione condotto dalla Galleria del Laocoonte, che esaminate le numerosissime opere ha lavorato al catalogo che sarà pubblicato da Polistampa a novembre, Monica Cardarelli è riuscita riportare agli occhi del mondo, scostando la polvere che il tempo aveva deposto su tele, documenti e testimonianze, un personaggio appartenente alla nostra storia dell'arte italiana e che rischiava altresì d'essere dimenticato dal grande pubblico.
Maria Luisa Lurini, che firmerà le opere sempre con il cognome del marito Mario Mori, nacque a Firenze il 9 marzo 1900. La madre era Edmea Bernini, figlia di un discendente dello famoso scultore. Nel 1918 si trasferì con la famiglia a Torino, dove nel 1925 divenne allieva di Felice Casorati, pittore tra il decorativo del movimento della Secessione viennese e il realismo magico, dal quale apprese in poco tempo lo stile del maestro. Ma presto se ne distaccherà.
Siamo in piena crisi finanziaria, quella del 1929, da lì a breve l’avvento dei totalitarismi sconvolgerà il mondo. Pur non rinnegando i suoi precedenti periodi creativi, Marisa Mori, abbracciò un altro tipo di linguaggio pittorico, il Futurismo, che in parte riuscì a colmare e riflettere le sue esigenze espressive, così dal '31, nonostante Casorati si dimostrò dubbioso, la Mori si accostò ai futuristi piemontesi: Prampolini, Rosso, Dottori, Tullio Mazzotti e Filippo Tommaso Marinetti; a livello iconografico forte fu la sua attenzione alle tipiche tematiche diffuse dal movimento, come quelle legate ai nuovi mezzi di comunicazione, alla società di massa e all'ebbrezza della velocità.
Quello che contraddistingue il tratto della pittrice è la manifestazione del rapporto sospeso ed istantaneo tra l’individuo e gli spazi stralunati di solitudine e malinconia. Quel luogo in cui il silenzio, come la parola, prende corpo, disegnando un orizzonte che non separa, ma unisce, per chi crede. Una tavolozza che disegna suoni di sospensione, a tratti innaturale, proprio per risaltare quegli strani anni che stava vivendo, dove la propaganda diceva che tutto stava andando bene, ma che pure niente stava andando "bene", un gesto e un'espressione che quasi si accorse anticipatamente dei tempi, sollevati da grigi tenui, quasi smorti, lasciati andare, ma ravvivati da occasionali, eppure vigorosi, gesti decisi di rossi passionali e gialli accesi. Loqui ignorabit qui tacere nesciet.
A fronte di un ordine colorato di piani spalancati verso l'abisso, come una donna che saluta per la prima volta il suo uomo dalla balaustra delle scale, la Mori sembra interrogarsi: come andrà a finire? Questo tipo di silenzio s'interromperà, il sole manterrà la promessa di riscaldare o sarà l'ennesima fiammella, che dalla routine quotidiana si è voluta distrarre? La Mori si abbandona completamente ad una pittura di silenzi e domande, un'inquietudine che la porterà, dopo varie delusioni di matrice politica, a raffigurazioni dal vero, tendenti più alla poeticità manzoniana, che ad un ritorno sicuro a Casorati, destinando al mare un preciso ruolo, protagonista e di speranza, quasi che, oltre i confini chiusi dell'urbano, solo il suo infinito potere di guardare ed essere guardato potrà armonizzare quello che stava vivendo. Dargli un senso. Nel secondo dopoguerra, infatti, dopo essersi distaccata dal movimento e il suo coinvolgimento con un regime che varò leggi razziste e omofobe, tornò verso una figurazione classica e naturalistica, come il ritratto, il paesaggio e le nature morte.
“Era una strada strana da percorrere, quella della pittura. Si andava avanti e avanti, sempre più lontano, finché alla fine sembrava di stare su un’asse stretta, sul mare aperto, soli”.
Virginia Woolf, Gita al faro
Una misurata costruzione spaziale di forme e figure definite mediante nitidi volumi invade la sua opera, nella stesura pittorica controllata, ma dalle ampie campiture di colore, dimostra sempre più una particolare sensibilità verso altri valori, forse meno cromatici e appariscenti, ma di certo più seri e maturi, a dimostrazione del fatto che anche un'artista come la Mori, che tra tanti stili e correnti si barcamenò, se una persona ha volontà, con un atteggiamento più severo e controllato, può crescere e raggiungere un suo equilibrio interiore sano.
Il suo scomporre precisi piani compositivi, mantenendo la forma, ma non abbandonando la forza vitale resasi più consapevole, fa pensare ad una donna che riuscì a vincere le mode del momento e il nemico che abbiamo dentro tutti, chi più chi meno, un grosso Ego ingombrante come un macigno, che non ci fa scrutare la strada, ma calpesta tutto ciò che lo intralcia, scambiando per ostacoli, quella che in realtà è solo la saggezza del destino che tenta di farci maturare; la Mori capì che, dopo la frantumazione della forma, adoperata dalla tecnologia nello spazio e dalla velocità, moltiplicata nel tempo, quel grosso Ego che vuole solo emergere e brillare, gli era solo d'intralcio e la stava obbligando a riprodurre sempre lo stesso schema stilistico, era arrivato il tempo di costruire di nuovo, così come le nazioni si sollevarono dalla distruzione della guerra, lei ricercò uno stile più lirico, dipinse di meno, ma meglio, senza ascoltare opinioni di mercato, ma in solitaria, preferì ritirarsi in campagna, fino al sopraggiungere della sua morte il 6 Febbraio del 1985.
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