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Immagine del redattorePier Paolo Piscopo

La Verità è svelata dal Tempo


“Il linguaggio è stato lavorato dagli uomini per intendersi tra loro, non per ingannarsi a vicenda.”
A. Manzoni

Se l'intento era rendere più consapevoli gli italiani del nostro patrimonio artistico e in particolare di Bernini, il regista, Francesco Invernizzi, del film "Bernini", ha dato e trasmesso poco.


Il tema conduttore della mostra è la Galleria Borghese, scena originale della scultura di Gian Lorenzo Bernini; il cardinale Scipione, primo mecenate e committente, lo volle autore di gruppi marmorei, per dare “figura di immaginazione” allo spazio di ogni stanza. Papa Urbano VIII Barberini, rimasto estasiato, lo volle come scultore per una costruzione dello spazio olistica, che richiamasse l'architettura e comprendesse dentro la figura illusioni prospettiche e volumetriche, luce e movimento.


La parola "illusione" è importante.


Il film ruota soprattutto attorno i quattro gruppi borghesiani Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina (1621-1622), il David (1623-1624) e Apollo e Dafne (1624-1625); tre soggetti mitologici e uno biblico.


Il film sembra più una pubblicità alla Galleria che una volontà di raccontare e soprattutto contestualizzare Bernini.


La contestualizzazione storica e geografica di un atto culturale, eterno come quello dello scultore napoletano, d'origini toscane e vissuto a Roma, è imprescindibile, è necessaria.


Da parte invece della critica c'è stato poco approfondimento, quasi nessuno, e tutto ruotava intorno la spettacolarità della ripresa, cercando in questo modo di esaltare la magnificenza dello scultore; mi è sembrata di percepire quasi una paura di non annoiare, un senso di colpa nell'essere troppo accademici, verbosi, pedanti.


Abbiamo hollywoodianizzato Bernini, la Roma dei papi, il Seicento, il cosiddetto "secolo di ferro", “sudicio e sfarzoso”, come scrisse Manzoni, segnato dal dominio straniero, dalla stupidità e l'ignoranza di una nobiltà decadente e retriva, dal conservatorismo culturale e sociale, dal controllo oppressivo della Chiesa controriformistica che stava lottando contro le guerre di religione, Calvino, Martin Lutero oramai da anni.


Di tutto questo, di come un artista della levatura di Bernini recepiva il suo secolo e come ce lo ha raccontato, del perché usa citazioni mitologiche o dirette delle opere di Raffaello e di Michelangelo, dell'arte ellenistica, di Annibale Carracci; non se ne ha traccia.


Si evidenzia giustamente come lo scultore abbia recepito dalla musica la teoria degli affetti, detta Affektenlehre, in un movimento che doveva trasmettere un unico "affetto", in questo modo razionalizzato, come lo ha fissato, l'attimo del sentimento, del dramma, nella pietra, la stasi della materia, immersa, come corpo solido in corpo liquido, nello spazio, nell'istante stesso che si compie il movimento.


Ma la colonna sonora oltre le musiche di Gluck, Hendel, Monteverdi e Mozart che restituiscono la cultura del secolo e i temi dei miti, vengono utilizzate poco, per lasciare spazio, soprattutto, a musiche gregoriane e religiose, quasi ad indicare il falso mito che è sacro tutto ciò che non si può raggiungere, quando quello fu proprio il secolo che portò al risveglio, partorito successivamente nel secolo dei lumi, nel Settecento.


Bernini, figlio del suo secolo, barocco, ha magistralmente fotografato gli stati d''animo, l'espressioni corrucciate, la paura, il dispiacere, la follia, l'estasi ma non è stata data contestualizzazione; perché proprio in questo secolo l'arte ha voluto dar mostra dei sentimenti eterni dell'uomo, come scolpiscono il nostro viso, il nostro corpo, perché proprio allora metterli così in evidenza? Nessun accenno. Niente.


All'espressione oraziana ut pictura poiesis "piace maggiormente ciò ch'è visto da vicino, rispetto a ciò che è visto da lontano" che Bernini realizza nel marmo, in modo che l'osservatore possa leggere le sue opere girandogli intorno, da sinistra verso destra e poi ricominciando; non n'è stata corrisposta la ripresa della telecamera: troppo spezzata, movimentata, fugace, quasi sembrasse insicura della narrazione, poco lineare.


Come al solito grande attenzione alla forma e poca al contenuto, ma evidentemente è il nostro Secolo che ci racconta.



Bernini, Ratto di Proserpina, 1622, Galleria Borghese, Roma

Pier Paolo Piscopo

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