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Vanitas: flesh dress di Jana Sterbak

Aggiornamento: 15 giu 2018


Non so amare

Tra le dita rigiro un suono

il canto che non so chiedere

tra le carezze le mie voglie.


Barca di malinconia

cavallo al galoppo

selvaggio.


Sussurro un destino

mito e identificazione.


Riconoscersi

è vivere, senza paura di perdersi.


Solo le api nascono

dove potrò rinascere.


Pier Paolo Piscopo, Non so amare, 2007

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Jana Sterbak, nata a Praga nel 1955, canadese d'adozione, ha proposto, nel 1987 Vanitas: flesh dress for an Albino Anorectic. Il titolo già dalla prima persona singolare del latino vanitas ci fa intuire a cosa allude l'artista. Ci stiamo vestendo di morte.


Una persona, dopo aver esplorato la vita materiale, giunge alla conclusione che tutto è vanità, nella stessa formula, contenuta nel testo biblico del Qoelet, vanitas vanitatum et omnia vanitas, tutto è vanità e tutto è inutile.


Senza ammonimento, ma con cruda realtà di comprensione, ci mostra come la moda dei vestiti cambia e deperisce, come il nostro io, soggetto al tempo, a cui diamo famelici in pasto la carne di altra carne, sia insaziabile e bisognoso.


Viene fuori l'inevitabilità del trascorrere del tempo, la paura della nostra natura effimera e nello stesso tempo crudele, l'immortalità come beneficio, anche al costo di condannare la vita altrui. Mors tua vita mea, mostra la debolezza insita dentro di noi. L'attenzione all'inutile, all'effimero e che pur di non tradirci, mostrarci il vuoto, a fronte dello strapiombo sull'abisso, ci accechiamo lo sguardo.


Per quanto possiamo dire che è prezioso e favoloso, esso ci dice è futile e caduco.


I capelli della ragazza, il pigmento della sua pelle e il colore della carne evocano l'attesa della rinascita e della consapevolezza, ma la rassegnazione è dipinta nel suo sguardo, in un rosso e un rosa preponderanti, ma smorti, stranamente non vitali, in un bellissimo, quanto sottile e drammatico contrasto, dà un senso di morte a ciò che chiamiamo vita.


Questo estremo atto di pentimento, accecati da un amore, che altro non era che amore di sé e delle vanità, è lo stesso del Petrarca nel 1350, quando nel Canzoniere scriveva:


del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono. Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesimo meco mi vergogno; et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, e ’l pentirsi, e ’l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.

Troviamo l'inganno della vanità anche in Leopardi, nella poesia A se stesso, 1835:


Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento. Il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla;
e fango è il mondo.
Ormai disprezza te, la natura, il brutto poter che a comun danno impera,
è l'infinita vanità del tutto.
Jana Sterbak, Vanitas. Flesh dress for an Albino Anorectic, 1987


Pier Paolo Piscopo


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